Disagio, sconcerto, strappo, incredulità. Sono queste le parole con cui molti stanno accompagnando la decisione di Matteo Renzi di “rischiare”, cioè di togliere la fiducia al governo Letta assumendo in prima persona la guida di un nuovo esecutivo. In un editoriale il direttore della Stampa, Mario Calabresi, si è spinto a parlare di “uno scontro che lascerà il segno”. Sono certa che Renzi, che ha invocato “franchezza e trasparenza” sia consapevole che questi sentimenti sono diffusi anche tra i nostri elettori e i nostri militanti, renziani compresi. Il suo primo dovere dovrà dunque essere quello di spiegare le ragioni di quanto avvenuto visto che per mesi, e soprattutto durante la campagna congressuale, ha ripetuto come un mantra rassicurante che Letta e il suo governo non avevano nulla da temere da una sua vittoria e che lui, Matteo Renzi, non aveva nessuna smania di Palazzo Chigi.
Le contraddizioni tra le parole e i comportamenti sono sempre difficili da dimenticare nel popolo.
Il segretario ha portato alcuni argomenti incontrovertibili: l’Italia sta entrando (è entrata?) in una palude che sembra inghiottirla. Da qui si può sperare di uscire solo “con proposte radicali” e con “un patto di legislatura” (che tradotto significa che si sciolgono le camere a scadenza naturale, 2016). Cambiare il Paese, pur evitando le urne, è “l’ambizione smisurata” che ha mosso il segretario e che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) “muovere tutto il PD”. Non ci ha spiegato Renzi come pensa di risolvere il nodo delle alleanze di governo per avere la maggioranza necessaria a governare e, soprattutto, a fare riforme “radicali”.
Chi vi parla ha il cuore sereno su un punto. Non ho mai vissuto il governo Letta come il “mio” governo. Fino a sostenere un governo di servizio ci potevo arrivare, oltre no. E l’ambiguità irrisolta circa la natura di quell’esecutivo, partecipato da Berlusconi, me lo ha reso ancora più distante: di volta in volta è stato considerato “politico”, “di servizio”, “di necessità”. Alla fine è diventato “strano”.
L’unica che non serviva all’Italia era la cancellazione dell’IMU ma siamo partiti da lì perché Berlusconi l’ha pretesa. Salvo abbandonare il governo quando, da “decaduto”, è stato accompagnato alla porta di Palazzo Madama. Di esempi ne possiamo fare parecchi altri. A Letta va riconosciuta una grande visione di Europa e una brillante azione internazionale. Ma gli errori e i ritardi, i continui rinvii lo hanno consumato. Tuttavia nel corto circuito che ha portato il governo al capolinea con almeno sei mesi di anticipo, c’è una responsabilità del PD.
L’hanno incolpevolmente confermata le parole del segretario Matteo Renzi: “il PD – ha detto – è stato sempre leale con il governo Letta anche quando si è trovato a sostenere cose che non condivideva”. Abbiamo fatto male. Invece che minacciare sanzioni o espulsioni per chi poneva questioni critiche, si sarebbe fatto bene ad ascoltare. Invece che far ritirare a tutti i firmatari della mozione Giacchetti per il ritorno al Mattarellum il sostegno si sarebbe fatto bene ad andare avanti.
Magari avremmo preceduto la mostruosa sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale.
E sul caso Cancellieri non minacci di espellere Civati e i suoi se non voteranno compatti. Questo ci eravamo detti quando avevamo accettato di sostenere il governo “strano”. Una cosa è esercitare la responsabilità di governo anche trovando punti di mediazione, altra cosa è contraddire ciò su cui ci si è impegnati. Non abbiamo fatto bene al PD e non abbiamo fatto bene al governo.
Così, per tornare a Renzi, comprendo che ai suoi occhi l’idea di continuare a restare nel limbo del rinvio continuo, che Letta ha manifestato di non voler modificare fino all’ultimo, sia risultato insostenibile. E’ solo partendo dall’Italia e dalla sua enorme, non più tollerabile sofferenza – dieci milioni di poveri relativi e cinque milioni di poveri assoluti – e dalla necessità che si cerchi in ogni modo ogni soluzione possibile che si può accettare “l’azzardo” di un “cambio radicale”. E non possiamo che augurarci che funzioni. Per l’Italia e solo per l’Italia. Ma senza dimenticare, caro Matteo, che un Paese dalla democrazia sana va alle urne. Andiamoci al più presto. Sarà un buon segnale.